Qualche giorno fa è venuto a mancare un grande figlio del mare, Marco de Montis: si trovava ad Olbia, nella sua Sardegna, aveva 51 anni.

Ho atteso un po’ di tempo prima di parlarne, perché questo nostro spazio di condivisione non è una rivista e non c’è l’esigenza di stare sul pezzo, in tempo reale; e ciò anche per la speranza che le idee prendessero una forma migliore.

Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscerlo, così come molti altri personaggi “importanti” della vela, intendo gente tipo Moitessier & friends. Ma forse commetto un errore quando mi riferisco a loro includendoli nel sostantivo ‘vela’, sarebbe più corretto dire ‘mare’, o meglio ancora ‘vita’.

Vela per me suona riduttivo o al contrario troppo inclusivo di persone che, perdonatemi, hanno poco da spartire come spessore.

Quando morirà un personaggio famoso dell’America’s Cup, assisteremo probabilmente a fiumi di gente, commozione generale e servizi mediatici a profusione. Purtroppo tutto ciò che Marco non ha avuto. Non che gliene fregasse nulla immagino, pertanto resta una semplice constatazione.

Solo che quel mio ‘purtroppo’ cela molto di più che un sentito dispiacere, e va rapportato a un quadro più grande.

Chi era Marco? Basta digitare su Google il suo nome e qualcosa troverete: non molto, un paio di articoli di riviste del settore, nulla più. Per carità è già qualcosa, meglio di niente. Va bene, vi evito anche lo smazzamento di andarvi a cercare i dettagli, tanto non servono, basti pensare che era uno degli ultimi clochard dei mari. Si proprio quella specie in via di estinzione di cui l’amato Moitessier apparteneva, cioè l’eroe romantico per eccellenza.

“Ma tu vuoi paragonare Marco a Barnard?”. No, certo che no, le miglia, le gesta avventurose, i primati pionieristici, pongono i due personaggi su due livelli differenti, benché il nostro connazionale comunque di mari e oceani ne abbia solcati abbastanza. Tuttavia Marco ai miei occhi ha paradossalmente un suo peso specifico maggiore rispetto al francese, perché vissuto in epoca differente. Moitessier si è avventurato in mare con mezzi a volte di fortuna, ma pur sempre quando molto era da fare, e il livello anche tecnologico poneva i velisti più o meno sullo stesso piano. E poi era il periodo degli hippy, del misticismo, del peace&love, delle comuni, e in un certo senso era forse più semplice prendere le distanze dalla società.

Il marinaio italiano invece ha dovuto vivere molti disagi e rinunce in un contesto storico profondamente differente, cinico, in cui la forbice tra chi ha e non ha è enorme e evidente. E poi molte delle cose che Marco non aveva a bordo, e qui uno degli aspetti del suo coraggio, non le cercava proprio: non sapeva cosa farsene di un cellulare o smartphone, tranne per le strettissime esigenze di comunicazione quando capitava. Vaglielo a dire a chiunque di noi una cosa del genere, e vediamo chi sarebbe così pronto a rinunciarvi!

In effetti mi disturba che quelle microscopiche attenzioni ricevute dai media, non ne abbiano mai evidenziato il lato eroico, romantico, ma quasi sempre restituito come una sorta di ‘macchietta’, al più un personaggio singolare; proprio come, immagino, avrebbe potuto apparire Bernard.

Mi dispiace che non si riesca ancora a capire l’importanza di questi marinai, sono deluso dalla mancanza di sensibilità che la società riserva loro, a vantaggio dei soliti performer, recordman, fantini dell’ippodromo consumistico e competitivo di questo mondo annichilente, triste e stanco.

Stiamo sempre lì, applaudiamo allo skipper di successo, al Tabarly di turno, ma sogniamo con Moitessier. Ed è qui che mi incazzo ancor di più: fate pace con il cervello, o con il cuore decidete voi. Perché se abbiamo un’idea della vela romantica, di un mare come teatro mistico e contemplativo, allora dovremmo dedicare statue e poemi a questi marinai, portarli come esempi, se non da seguire con i fatti almeno come fonte di ispirazione.

Marco viveva di piccoli lavoretti e regali, e questo per molti equivale certamente a una vita stigmatizzabile. In Italia verrebbe considerato semplicemente “un barbone”, limitandosi alla miope visione pecuniaria, perdendo la ricchezza che il suo modus vivendi comporta. So bene di cosa parlo, non perché io sia uguale, al confronto anzi sono un lord, un bambino viziato, e non potrei mai ‘vivere libero’ come lui; ma ho avuto diverse occasioni per toccare con mano l’arroganza e lo snobismo di chi vede la barca come giocattolo e status symbol, anche se a parole spesso sembra parlare altre lingue. C’è molta meschinità nel nostro settore, e non c’è spazio per figure romantiche, spesso apostrofate con sconcertante nonchalance come “persone che vogliono vivere a sbafo di altre”, o altre affermazioni di berlusconiana memoria del tipo “io mi sono fatto da solo, mi sveglio alle 5 del mattino e lavoro per… eccetera eccetera”, dimenticando tra l’altro quanto la vita il più delle volte sia frutto di semplice casualità.

Marco sceglie di vivere il più libero possibile a bordo del suo piccolo veliero, non è nato povero in qualche favela senza opportunità; e questa scelta è uno dei messaggi più forti con cui la società dovrebbe fare i conti. O meglio, è proprio perché li fa che ne trae spavento, allontanando quasi scientificamente ogni possibilità di eco: il format del criceto deve rimanere saldo, il messaggio di una vita alternativa meno schiava di falsi bisogni invece bandito. Pensate se storie come quelle di de Montis o Moitessier venissero insegnate nelle scuole, magari insieme a Pepe Mujica e altri ‘EROI’; non solo dunque riferimenti di successo nel senso triviale del termine, ma anche alternative percorribili da chi a volte ha bisogno solo di uno stimolo e un faro, per comprendere i giusti valori. Ci lamentiamo che il livello morale si stia abbassando, che le nuove generazioni ci sconcertano, ma non facciamo nulla per cambiare rotta, adducendo le colpe a una non meglio identificata causa aliena. Quando in realtà siamo noi la causa di tutto, noi che ridiamo di Marco o gli rifiutiamo un aiuto economico, pronti però a darlo a qualche chiesa per “pagarsi l’indulgenza”. A molti credenti (e tra i velisti presumo ce ne siano a bizzeffe) piace parlare di Gesù e dei suoi insegnamenti, ma lui professava la povertà (non la miseria) e viveva di poco, non lavorava, non produceva, per scelta; oggi se lo incontrassimo per strada, probabilmente ci gireremmo dall’altra parte con uno sfuggente “vai a lavorare!”. Ma il paradosso è che in suo nome si devolvono somme di ogni tipo per far si che il suo messaggio…

Cercate di non concentrarvi sul dito e guardate la luna, il paragone può apparire dissacrante, ma la realtà invece dice altro. Marco e Bernard hanno prodotto ‘miracoli’ concreti, perché hanno fatto sognare, hanno ispirato, hanno portato anch’essi dei messaggi importanti, hanno cambiato vite, senza volere nulla in cambio se non un po’ di solidarietà alla bisogna, e magari il rispetto di chi ancora non ha capito molto della vita.

Da parte mia ho un rammarico, quello di non averlo potuto aiutare con il Fondo: la nostra idea nasce anche grazie a lui, pensando a persone coraggiose come de Montis, e perciò lui era il perfetto candidato per la nostra ‘mano da marinaio’; ma purtroppo tra la nascita e crescita economica di quello che da qualche amico viene definito un magnifico progetto utopistico, e la sua dipartita, c’è stato troppo poco tempo per incrociare le rotte.

Maurizio che lo ha conosciuto mi racconta, “mi avvicino alla barca e sinceramente da lontano non si capiva quale fosse la prua, la coperta era piena all’inverosimile di cime, parabordi, contenitori, cerate e bidoni di tutti i colori, insomma un bazar galleggiante… la barca più’ stravagante che avessi mai visto”.

In un’intervista Marco dice riferendosi al suo piccolo “Saturn”, un Waarschip 725, “mi piace più che una casa, mi da pace, tranquillità”.

Dicevo del paragone con Bernard a vantaggio di Marco, in quanto il navigatore sardo si è dovuto scontrare con diverse angherie figlie di questa società alla deriva, tra le quali un furto importante di attrezzature, e soprattutto il rifiuto di un marina portoghese a offrirgli ormeggio vista la tempesta in cui si trovava: epilogo triste, con la perdita del suo primo sogno “Orion” di 9 metri, con cui era partito dall’Olanda, e per il quale aveva venduto tutti i suoi averi.

Nonostante ciò non si scoraggia, perché il desiderio di uscire da codesta società è più forte di ogni disgrazia, e quindi ricomincia a bordo di “Saturn”.

Per comprendere il suo stato d’animo e la sua pace negli occhi basta vedere il seguente video, in cui tra l’altro gli viene chiesto di dare un’occhiata al suo libro di bordo, e quando descrive i venti che ha incontrato, tipo F8, ha bisogno di aprire una piccola tabella per leggerne la corrispondenza in nodi: fantastico! Tutto il contrario del “velista della domenica” o di chiunque vede il mare troppo spesso come un palco da cui esibirsi, facendo a gara per saperne di più. Lui è totalmente fuori tali dinamiche. Lui è la vela, il mare nell’essenza più pura e spontanea. Ha poca importanza quanti nodi siano un F8, lui sa, la sua pelle sa che dopo una certa intensità deve ridurre tela, o mettersi alla cappa.

La foto che lo ritrae con quello che pochi definirebbero un sestante è emblematica: bimbo divertito e sognante che impugna un banale aggeggio di plastica, poco più di un goniometro, trasformandolo nel miglior strumento tecnologico di rilevamento posizione.

Voleva scappare dall’Italia, dove era approdato nella sua terra di origine, la Sardegna; via, via dal suolo italico faro della burocrazia contemporanea.

Desiderava atterrare in qualche isola del Pacifico, dove rimanere per il resto dei suoi giorni. Non ce l’ha fatta, ma in qualche modo sono certo che la sua anima si trovi proprio lì, magari a rollarsi una sigaretta insieme a Moitessier.

Grazie Marco per le tue scelte e il tuo coraggio.