Il blitz di cui accennavo nell’ultimo articolo si svolge come segue.
Ci siamo organizzati per far sì che in una settimana dovremo prendere le misure di Rebound, di modo da preparare quanto sarà necessario da qui a Settembre (ricordo che siamo in differita); se poi riuscissimo pure a sbarcare il vecchio Perkins, allora bhe sarebbe un trionfo.
La parola d’ordine è: proviamoci!

Perché una settimana: siamo a luglio, i prezzi degli affitti qui a Crotone sono improponibili data l’alta stagione, poi fa un caldo bestia (si lavora male) e anche dobbiamo assolvere ai doveri famigliari (è un anno che non incontriamo i genitori di Başak). Per cui va benissimo così, o la va o la spacca, siamo pronti a perdere la sfida, senza alcun eventuale rammarico: Rebound chiede l’approccio Zen e questo siamo pronti a rispettare.

Siamo già d’accordo con il fidato amico Manuel (elettronautico inarrivabile che non smetterò mai di consigliare a chiunque: lucidivia.com) che quando saremo pronti, lui ci raggiungerà a Crotone (parte da Roma) per dare la spallata finale con il motore.
Come già precedentemente raccontato, il primo impatto con Rebound è stato a dir poco devastante; salvo poi ora dopo ora, facendoci largo tra i vari meandri delle viscere, più simili alla scenografia di Alien che una barca abbandonata, prenderne le misure; in particolare in zona motore, per il tentativo di cui sopra.
La barca è dotata di una sala macchine non indifferente per un 15 metri d’antan; purtroppo il sogno di camminarvi dentro da homo erectus rimane tale (ah bella barca di 20 metri, dove sei?!); a peggiorare la situazione è il fatto che è piena di ogni marchingegno, più o meno utile, atto a creare una sorta di Giochi senza frontiere (per chi se li ricorda).
Di questo però ne parlerò in un articolo ad hoc.
Prima di arrivare a Crotone mi ero messo d’accordo con Pino, il proprietario del cantiere Motonave, di trainare Rebound via acqua dal vicino marina, dove è rimasta per più di 11 anni; poi tirarla in secco e, più importante, iniziare a scollegare il motore.
Devo essere sincero, non mi aspettavo tanta efficienza e difatti lo stesso giorno del nostro arrivo, Antonio, il simpatico ragazzo factotum, era già testa bassa nella sala macchine a combattere con chiavi, martelli e cacciaviti.

In poche ore il motore è già libero di uscire… Si, uscire, ma da dove?
La sala macchine ha una porticina di accesso (evidentemente progettata a suo tempo da uno gnomo olandese), più un bel pannello generoso laterale, da cui si accede dalla zona cucina; lì per lì credevamo potesse uscire da quest’ultima apertura, ma già l’occhio del perito edile aveva bocciato l’ipotesi: troppo piccola.
Dopo le dovute imprecazioni sul come si potesse concepire una barca senza vie d’uscita per il motore, cominciamo a immaginare delle soluzioni percorribili.
Tagliamo il pozzetto? Un po’ drastica come cosa, oltretutto per i problemi che si sarebbero verificati a posteriori senza maestranze adeguate con l’alluminio.
Alla fine decidiamo per tagliare la pannellatura di legno in cucina: in fin dei conti il male minore; il legno è un ottimo materiale che si presta appaunto a “facili” modifiche; vorrà dire che predisporremo noi ciò che non ha fatto il cantiere.

Già avendo odorato la situazione mesi prima, avevo inviato email al club dedicato ai vari Trintella (modello della barca) per capire come altri armatori avessero risolto: tagliare il legno è facile, ma sempre meglio prima verificare le esperienze altrui. Anche perché il Perkins da 85 HP non è proprio un giocattolino, e farlo passeggiare dalla cucina al quadrato, per poi uscire non si sa bene come in pozzetto, sarebbe stata impresa fattibile certamente, ma con un grosso rischio di crear danni dappertutto. Il club dopo 2 mesi, ahinoi ancora non risponde.

Sono trascorsi 2 giorni e Manuel attende nostre nuove.
Il terzo giorno (secondo le scritture), nel mentre stavo iniziando a disassemblare il più possibile affinché la zona da tagliare fosse in chiaro, togli un pannello fonoassorbene e togline un altro, scorgo sul cielino della sala macchine i piedi filettati di alcuni bulloni… Spetta spetta che forse, no non può essere:BAŞAAAAK, HO TROVATO LO SPORTELLOOOO!”.
Tronfio della mia intuizione (gran botta di… fortuna), mostro alla povera consorte, rassegnata alla prima sconfitta (aprire il costato, se pur di legno, della nuova figliuola, non era un intervento chirurgico piacevole), come l’architetto Van de Stadt non fosse stato poi così sprovveduto.
Ma altro che sportello, a venir via sarebbe stato tutto il pavimento del pozzetto! E vai.
“Manuel ottime notizie: organizzati e vieni quando vuoi, siamo pronti a tirar fuori il motore”.
Contento anch’egli di poter dare una prima mano importante alla causa degli amici, parte il giorno dopo alla volta della terra calabra.
Nel mentre lui è in viaggio io e Başak ci porteremo avanti con i lavori: lei, più euforica e speranzosa dopo le belle notizie, fa quel che può (sempre troppo) e tenta di dare una rassettata agli ambienti di passaggio, di modo da agevolare le zone di lavoro; io inizio a togliere il teak perimetrale dal pozzetto.
Effettivamente le teste dei bulloni si trovano sotto il teak che, per quanto provo a tirar via con l’attenzione del buon padre di famiglia, in pratica non salvo un singolo listello dalla distruzione. Le imprecazioni in questo caso non partono, c’è già il programma di asportare tutto il legno in coperta, causa potenziale di corrosione (un grande peccato, poiché teak nuovissimo: vedremo il da farsi più in là).

Manuel finalmente arriva e dopo baci e abbracci, cominciamo a “dargliele secche”, (cit. altro caro amico Alessio).
Come un’anguilla lui si butta in sala macchine al fine di individuare i bulloni rimanenti (il giorno prima ero riuscito a toglierli quasi tutti: scopriremo poi essere ben 97) e man mano far leva con il piede di porco; era prevedibile che oltre ai bulloni ci fosse un qualche strato di sigillante, di conseguenza necessitavano un po’ di “azioni decise”.
Batti tu che batto io, il pavimento inizia a muoversi ma non viene via.
Supportati dalle reciproche esperienze smettiamo di forzare: c’è qualcosa che lo tiene ancora fissato. Manuel “Possibile altri bulloni?”, io “Manuel, non credo, li ho tolti tutti, non ne vedo altri”.
L’amico infine scorge altri piedini di inox filettati, “Guarda che a me sembra di vederne altri 3 qui sul montante destro”. Ebbene (e qui vai di imprecazioni), ciò significava che avevano nascosto le teste degli ultimi bulloni sotto stucco e vernice.
Vai, faccio saltare anche quest’ultimo nascondiglio. E come sempre accade, gli ultimi problemi sono anche i più cornuti: non solo ve ne erano diversi altri nascosti allo stesso modo, distribuiti in punti angolari strategici, ma 3 erano sul montante a ridosso del gradino, con uno spazio di manovra non più profondo di 5 cm. So che la descrizione senza supporto visivo, non potrà tornare utile nemmeno a chi di mestiere, ma basterà fidarsi del fatto che nessun cacciavite avrebbe potuto operare con così poco spazio… tranne quelli nani da me ricevuti in eredità non ricordo da chi.
La scena è la seguente: Manuel che spinge con una leva improvvisata la testa del mini cacciavite, io ad agire sul gambo metallico dello stesso tramite chiave spaccata, millimetro dopo millimetro, svitando infine quei bulloni maledetti.

Arriviamo al dunque. Tutti e 97 i bulloni sono stati tolti, il sigillante per fortuna non era molto (credo solo silicone, altrimenti fosse stato Sika, sarebbero stati guai seri), gioca a destra e gioca sinistra, un po’ di forza bruta ed ecco il pavimento venir via. Fiuuuuu, che faticaccia.
Il resto si svolge come ogni lieto fine meriti.
Antonio sale a bordo, Pino è sulla gru, imbraghiamo il tavolino che fungerà da presa adeguata (inox ben imbullonato alla base) e il pavimento viene su, pronto a essere sbarcato.
A stretto giro agganciamo il vecchio Perkins, mille attenzioni del caso e via anche lui, destinato al pallet, pronto per essere spedito in Polonia.
“In Polonia? Ma lo vendete? Ne metterete uno nuovo? Perché in Polonia? E ora che farete?”.
Arrivederci alla prossima puntata

 

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